DOVE
SI PARLA DELLA GUERRA CHE LE CASE STANNO COMBATTENDO PER IL POTERE. DEL
RUOLO DEGLI SPONSOR. E DEL RISCHIO CHE CORRONO I PILOTI E LO SPORT CHE
AMIAMO.
Come
sarebbe un motomondiale senza sponsor? Non c’è bisogno di
grande fantasia per immaginarselo: basta riandare con la mente ai campionati
di un po’ di anni fa. Diciamo la metà degli anni ’70.
Le moto ufficiali erano pochissime, le guidavano due o tre piloti. Il
resto si arrangiava come poteva, portando i propri cavalli d’acciaio
in rimorchietti e facendosi aiutare, per la preparazione e le segnalazioni
dai box, da un amico e dalla fidanzata. Così correva anche un certo
Jarno Saarinen. Erano tempi duri: si mangiava quando c’era tempo,
e si dormiva in macchina. I soldi guadagnati, pochi, pochissimi, venivano
dagli “ingaggi” ricevuti gara per gara, o dai premi d’arrivo.
Facevano la fame, letteralmente, i piloti d’allora e poiché
non contavano, né per gli organizzatori né per le case,
correvano in condizioni di totale, assoluta, scriteriata mancanza di sicurezza.
Non è che non si lamentasse nessuno, e che nessuno poteva permettersi
di lamentarsi. Potevi non correre, ma così non guadagnavi e prendere
parte alla gara successive, poiché non avevi battagliato, non ti
eri messo in mostra, diventava ancora più duro.
Ecco perché si rischiava la vita al TT, al Saltzburgring, a Rijeka.
Poi, grazie a campioni con Giacomo Agostini e Barry Sheene, “personaggi”
si direbbe oggi, qualcosa è iniziato a cambiare. Il Tourist Trophy
nel 1977 è saltato. Al suo posto arrivò Silverstone. Oggi
farebbe paura, allora era manna dal cielo.
Erano uomini eccezionali Ago e Barry. Il coraggio uno non se lo può
dare, ma loro ce l’avevano. Guarda caso furono anche fra i primi
ad attirare gli sponsor, a indossare tute colorate, ad andare in TV, a
girare spot pubblicitari e quando, nel 1979, nel Circo arrivò un
certo Kenny Roberts, ignorante come solo un americano ignorante sa essere,
ma duro e puro, a Francorchamps si fece uno sciopero storico nel quale
giocò da leader anche il nostro Virginio Ferrari. Una faccia pulita
che fece crescere il primo team Satellite-ufficiale della storia del motomondiale:
il team Nava-OlioFiat di Roberto Gallina.
Kenny, Virginio, Barry, prima che piloti furono uomini straordinari, perché
sdoganarono il nostro motociclismo trasformandolo da spettacolo d’elite
in sport di massa. Ciò fu possible perché quei ragazzi con
il loro comportamento fecero capire al mondo commerciale che anche il
motociclismo era portatore di valori interessanti.
La crescita, economica, del motomondiale, portò le case –
non tutte – a decidere di costruire, e vendere, repliche delle proprie
moto ufficiali. Lo fece la Suzuki con la sua RG Gamma 500, lo fece la
Yamaha con la sua YZR OW 500. Poiché, a quel punto, i privati iniziarono
ad avere qualche possibilità di raccogliere piazzamenti interessanti,
cominciarono ad arrivare anche gli sponsor. Per un po’ di tempo
fu l’età dell’oro. Le mezzo litro dell’anno precedente
venivano riciclate a basso costo in mano ai giovani, ed i campioni lottavano
per il “work team”. Poi i giapponesi capirono che in questo
modo si guadagnava poco. Se uno come Franco Uncini, del resto, si permetteva
– era il 1980 - di fare il quarto posto nel mondiale con una Suzuki
privata alle spalle di Roberts, Mamola e Lucchinelli, qualcosa bisognava
fare. Così, lentamente, in modo strisciante, le repliche sparirono
ed arrivano i “leasing”. Moto quasi ufficiali, ma in affitto.
Un modo per far pagare agli sponsor, che nel frattempo erano ulteriormente
cresciuti, la stessa tecnologia anno dopo anno.
Un imbroglio? Beh, sì e nò perché, contemporaneamente,
grazie alla maggiore circolazione di denaro, il motomondiale era cresciuto.
Grazie al fatto che a parlare non erano più solo i piloti –
i “tossici” della velocità, se ci passate il brutto
paragone – ma anche gli sponsor.
Questi, infatti, volevano uno sport più sano, che facesse fare
loro bella figura e ci riuscirono facendo vivere meglio tutti: piloti,
meccanici, organizzatori. Quello che si chiamerebbe un circolo virtuoso.
Furono, gli sponsor, il contrappeso necessario alla dittatura totale delle
case e dell’allora ignorantissima Federazione Motociclistica Internazionale.
Se il motociclismo è cresciuto, non è stato dunque grazie
alle Case, non è stato grazie alla FIM, è stato grazie alla
crescita di interessi economici fra i più vari contrapposti all’interesse
unico delle case giapponesi: farsi la Guerra fra loro per occupare i mercati.
A questo punto avrete capito dove stiamo andando a parare. Questa è
una Quinta Colonna contro coloro i quali se la prendono contro gli sponsor
“cattivi” e combattono la guerra delle case giapponesi che
– ma quanto sono brave! – hanno recentemente dimostrato chi
è il vero padrone del vapore. Lasciando a piedi piloti e combattendo
guerre suicide contro gli sponsor. Chissà dove vogliono arrivare?
si domanda l’ignorante che non conosce la storia. La risposta, però,
è già scritta. Basta saperla leggere.
Honda, Yamaha, Suzuki e Kawasaki possono, se vogliono, correre da sole.
E’ vero? E’ vero! ma come?
Ancora una volta, non è importante saper scrivere, ma è
fondamentale invece saper leggere.
Del resto questo è l’insegnamento di tutte le democrazie
del mondo contrapposte alle dittature che non a caso hanno paura di coloro
i quali risvegliano le coscienze.
Ma qui non stiamo a parlare dei massimi sistemi, solo di motociclismo.
Un motociclismo che è arrivato fin qui perché i piloti hanno
potuto scegliere, grazie al fatto di essere economicamente liberi, ricordiamocelo.
Perché se fosse stato per le Case e la FIM, saremmo ancora al Tourist
Trophy che amiamo ancora ma, fortunatamente, abbiamo imparato ad evitare.
P.S. Per chi non se ne fosse accorto al momento la MotoGP può
contare su 6 Honda, 3 Yamaha, 2 Suzuki, 2 Kawasaki, 4 Ducati ed una KR.
Diciotto moto in tutto. Poche? tante? Beh, se la Ducati non ce la facesse
(ed i chiari di luna non la vedono finanziariamente solidissima) e Kenny
Roberts la imitasse, il numero scenderebbe rapidamente a tredici. Sono
ancora molte? Uhmmm, crediamo che far comandare i giapponesi non sia poi
una idea così geniale, specie in un momento in cui la FIM non brilla
per attivismo ed il motociclismo è in mano alla Dorna. O è
la Dorna, ormai, ad essere in mano alle case?
Postilla conclusive non scientifica: la Kawasaki e la Kawasaki Heavy
Industries sono due società separate. Come lo è la Suzuki
moto e quella auto, e la Yamaha che vende pianoforti e elettronica poco
si cura della moto di Valentino Rossi. In società diverse i budget
non sono vasi comunicanti: ognuno ha il suo, in virtù della grandezza
del rispettivo business. Per questo la Kawasaki – che costruisce
superpetroliere e lo Shin-kan-sen – schiera due moto e la Honda
sei.
L’economia, questa sconosciuta.
(16/1/2006)
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