giovedì 1/7/2004
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L’assetto a Rio: parla Caprara
Il circuito brasiliano di Jacarepaguà, costruito tra il 1975 ed il 1977, è intitolato all'iridato carioca di F.1 Nelson Piquet. La prima competizione disputata fu nel 1977 con una gara di campionato nazionale, successivamente vennero svolte dal 1978 al 1989 in prevalenza gare del mondiale di F1. Nello stesso periodo, tra il 1982 e 1983, l'autodromo ospitò anche le gare del campionato brasiliano di motociclismo. Quando le moto, nel 1990, si trasferirono ad Interlagos, sul circuito "Carlos Pace" di San Paolo, privo di grossi appuntamenti, il Jacarepaguà fu dimenticato. Nel 1995, fu parzialmente ricostruito per ospitare il GP di Motociclismo. In quella occasione la lunghezza del tracciato passò dagli originali 5.031 metri agli attuali 4.933, con un rettilineo di ben 1100 metri. La pista, assieme a quella del Mugello, ha uno dei rettilinei più lunghi del campionato del mondo ed è considerato un tracciato difficile. Sfortunatamente, il circuito di Rio fu costruito su terreno di riporto, che ha causato più volte, nel corso degli anni, un deterioramento accentuato del manto d'asfalto.

Nel 1995, per correggere questi errori, furono spesi 30 milioni di dollari sul circuito. Nonostante questo l'asfalto rimane fra i più sconnessi del campionato, risultando particolarmente impegnativo per le sospensioni. Ma non solo questo caratterizza il Jacarepaguà.

Sul suo rettilineo (1.100 metri, uno dei più lunghi del motomondiale) i giochi delle scie possono far perdere o guadagnare diverse posizioni. Il difetto maggiore del tracciato brasiliano riguarda comunque la superficie della pista: l'asfalto si sbriciola, si spacca e, se piove, diventa quasi impossibile stare in piedi. Può capitare di ritrovarsi con la moto che pattina in sesta. La pista è larghissima, ma per trovare un po' di grip si tende a stare tutti su una striscia di un metro, un metro e mezzo. Chi esce da lì, lo fa a suo rischio e pericolo. Questo vuol dire che superare è difficile e pericoloso.

Il rettilineo è lunghissimo, quasi noioso. Frenata e ingresso nella prima curva in seconda cercando di evitare le buche. o almeno di assecondarle. Tutta in seconda, aprendo e togliendo gas fino alla curva. da quarta, il curvone veloce si affronta in terza, di nuovo seconda, il curvone dietro ai box in seconda, sesta, frenata e terza, tutta in terza questa parte fino alla esse che si affronta in seconda, terza, terza, seconda, in questo punto l'asfalto è spesso rovinato, con avallamenti, buche, cambi di asfalto. Quarta, seconda, terza e seconda prima dei box. I piloti fanno tutti le stesse traiettorie e quella zona tende a gommarsi e a diventare almeno decente. Il problema è che in prova si viaggia sempre e solo sulla linea ideale e in gara, invece, quando si vorrebbe superare si trova il resto della pista sporco, senza grip con l'asfalto in condizioni pessime. Il sorpasso è davvero difficile e rischioso.


Difficoltà anche per le gomme, a causa delle alte temperature e dell'asfalto abrasivo, che sollecitano soprattutto il pneumatico posteriore nell'appoggio a sinistra. In realtà il problema non è solo dell'asfalto, ma una combinazione di mancanza di grip, molte buche ed una grande varietà di curve, spesso veloci, senza alcun "camber", cioè completamente piatte. Solo una frenata decisa caratterizza questo circuito, e per questo nei setting si tende principalmente a privilegiare la manovrabilità.

“Il primo obiettivo è di rendere la moto guidabile nei cambi di direzione, veloci e medio veloci, e ciò si può ottenere indurendo l'ammortizzatore posteriore, in modo da evitare l'abbassamento della moto in accelerazione – spiega Pietro Caparra, tecnico di pista del MS Aprilia in MotoGP - Il problema con questo tipo di soluzione, però, è che, trovata l'agilità, la moto diventa nervosa e per il pilota è difficile mantenere un buon ritmo. L'utilizzo di una molla posteriore dura ha anche un altro effetto, fa lavorare di più la gomma, mettendone a rischio la durata in gara. Per questo, di solito, si cerca di mediare ammorbidendo la molla ed indurendo il precarico dell'ammortizzatore posteriore, in modo di "sostenerlo" in accelerazione. Necessariamente poi, si lavora sulla frenatura idraulica in modo da mantenere un buon compromesso sulle velocità di esercizio della sospensione posteriore per ottenere un discreto bilanciamento dal punto di vista della trazione e della stabilità.
Trovata la giusta configurazione, che riguarda anche la forcella, ci si occupa del motore, e poiché Rio è un circuito di accelerazioni, ci si concentra sull'erogazione ai medi ed agli alti regimi”.

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